Basquiat: dolore e celebrazione al MUDEC di Milano

“Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate nude isteriche, trascinarsi all’alba per strade di negri in cerca di una siringata rabbiosa di droga.. “

Così scriveva nel suo poema Howl Allen Ginsberg, un grido psichedelico di rabbia e denuncia verso l’ipocrisia e il conformismo dell’America nella metà degli anni ’50. Meno di trent’anni dopo viene allestita la prima personale (a Modena,  nella galleria d’arte Emilio Mazzoli ) di un giovanissimo artista emergente che sembra aver incarnato in toto i versi di quel poema maledetto: Jean-Michel Basquiat.

E’ la fine degli anni ’70. Muore De ChiricoWarhol è all’apogeo della sua carriera, viene coniato il termine Transavanguardia, alla Biennale di Venezia viene lanciata la post-modern, New York sta vivendo un periodo di grandi cambiamenti politici, economico-sociali. Queste cose sono in qualche modo interconnesse tra loro, sta per cambiare qualcosa e il mercato dell’arte lo fiuta. La cultura underground, dei ghetto-blaster, dei graffiti, esce di prepotenza dagli scantinati e dalle metropolitane, dai vicoli malfamati e maleodoranti e approda nelle gallerie più importanti di Soho.

Versus Medici, 1982

Basquiat ha 20 anni, è giovane e incazzato,  vuole diventare famoso. Suona in una band, produce cartoline, t-shirt, collage, poesie sotto lo pseudonimo di SAMO (Same Old Shit). Dopo un periodo di iniziale indifferenza la cultura underground inizia ad accorgersi di lui. Vengono scritti articoli su questo giovane artista, i critici intuiscono qualcosa.   Grazie all’incontro e al sodalizio conAnnina Nosei nel 1981 arriva (forse, troppo presto) il successo.

Nello scantinato della Nosei dove vivrà fino all’anno successivo, Basquiat trova terreno fertile per far esplodere definitivamente il suo linguaggio creativo. Un neo-espressionismo viscerale, urlato, condito da elementi primitivi, parole cancellate e/o decostruite, colori acidi e forti dichiarano una rabbia esistenziale e di denuncia, ma anche una sensibilità fuori dal comune, un’esistenza tormentata, una personalità complessa ed esuberante. Un linguaggio personalissimo anima le sue tele, pronte per essere fagocitate da un meccanismo di un mercato d’arte drogato (e spietato) generato da enormi guadagni.

Zydeco, 1984

Nel biennio successivo Bruno Bishofberger diventa il suo agente al posto della Nosei e lo presenta a Warhol. Pubblica un disco di musica rap e fa il dj in diversi club di Manhattan, ha un flirt con MadonnaProduce opere a un ritmo forsennato, ispirato dalla televisione sempre accesa e sintonizzata su canali di cartoon, divora libri in continuazione alla costante ricerca di ispirazioni eterogenee e volutamente frammentarie. Nel 1984 inizia una collaborazione con Mary Boone,  Il New York Magazine punta i riflettori su di lui, iniziano a fioccare personali in tutto il mondo: Basquiat si ritrova le tasche piene di dollari, mentre l’apice del successo coinciderà con l’inizio del suo inesorabile declino. Abusa di ogni genere di droga, ha attacchi psicotici. La sua corona,marchio con il quale firma moltissime delle sue opere, sembra voler quasi esorcizzare la totale mancanza di controllo nella sua vita.

Andy Warhol, Mark Kostabi, Basquiat

La produzione artistica avanza, lavora instancabilmente nonostante la sua salute peggiori sempre di più. Le Collaborationscon Warhol e Francesco Clemente vengono guardate con circospezione dai mercanti (oggi del tutto rivalutate), tanto da far incrinare i rapporti tra Basquiat e il suo “padre adottivo” Andy Warhol. Tra il 1986 e il 1987 conosce un calo di apprezzamento da parte di pubblico e critica. Rompe con i suoi sostenitori e galleristi: è in totale balia della droga. Muore Warhol, Basquiat ne è scosso, continua a produrre lavori per mostre per l’anno successivo, ma è ormai schiavo dei suoi demoni. Nell’agosto del 1988, a soli 27 anni, Basquiat muore di overdose nel suo appartamento.

la mostra al MUDEC – Museo Delle Culture – Milano

La mostra del Mudec di Milano raccoglie più di 140  opere, che ricoprono il periodo dal 1980 al 1987. Provenienti prevalentemente dalla collezione privata di Yosef Mugrabi, le opere sono organizzate secondo sezioni legate ai vari studi dove Basquiat ha lavorato. Dalla strada al periodo modenese e la sua prima personale, al periodo del primo studio a New York, passando per gli studi di Crosby Street e Great Jones Street. Non manca una sezione dedicata alle Collaborations con Warhol, così come un’interessante proiezione video di un’intervista tratta dal documentario The Radiant Child.  Dalla mostra emergono tutta la potenza e la complessità di questo gigante dell’arte contemporanea. Il primo afroamericano a scalare i vertici di tutto il mondo ufficiale dell’arte, un personaggio fuori dagli schemi, a tratti infantile, a tratti esuberante e sofisticato; emergono i suoi mille riferimenti, dalla cultura pop americana, al jazz di Charlie Parker (suo idolo), alla storia “black” haitiana e nordamericana; emergono il non-sense e la sua cultura artistica non convenzionale, ma complessa e stratificata. I colori di Basquiat ti avvolgono e ti rimangono dentro per parecchio: una mostra consigliatissima, un’esperienza multisensoriale, una catapulta verso un limbo psichedelico, magico, colorato, irruente e  complesso quale è l’universo caleidoscopico dell’estetica di Jean- Michel Basquiat. 

MUDEC
Museo delle Culture
via Tortona 56, CAP 20144 Milano
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02 54917  |  info@mudec.it
Alberto Marinelli

SOS – Screaming On Silence – la nuova mostra collettiva di Arte è Kaos dal 23/12 all’ 8/1

Di fronte ad un quadro bisogna avere lo stesso atteggiamento che si ha al cospetto di un principe: aspettare senza sapere se ci parlerà e che cosa ci dirà. E come al principe, anche al quadro, non dobbiamo essere noi che rivolgiamo la parola: se lo facessimo udiremmo soltanto la nostra voce” Arthur Schopenhauer.

Ogni opera d’arte urla nel silenzio. Il silenzio di un museo, di una galleria d’arte, di una casa. Il silenzio di uno spazio che non ha niente da dire fino al momento in cui l’opera fa la sua comparsa. Il quadro non racconta, non sussurra, non parla: urla. Perchè le vere opere d’arte si fanno sentire a gran voce, non sono parole sussurrate ma frasi esternate con potenza e decisione: non si può non ascoltarle.

CONSTANTIN MIGLIORINI  – SENZA TITOLO – 120 X 130 – OLIO SU TELA

CIRO PALUMBO – LUOGHI – 50 X 50 – OLIO SU TELA

Ogni opera d’arte è un SOS, un messaggio nella bottiglia, una richiesta se non di aiuto di attenzione. L’artista lancia il suo messaggio nel mondo e al mondo. Un messaggio con mittente ma dal destinatario sconosciuto. Come una frase urlata dall’alto, da un aereo in stallo sopra le nuvole, o in mezzo al mare da una nave che affonda. Qualcuno ascolterà questo messaggio, trasmesso su una frequenza speciale, e non potrà ignorarlo.

CLAUDIO MASSUCCO – MEMENTO MORI – 100 X 70 – TECNICA MISTA SU ALLUMINIO 

Ogni opera d’arte urla sul silenzio, per contrastare il vuoto e il buio, l’assenza di emozione e di colore. Fa notare la sua presenza sviluppando nuove energie non solo in un ambiente ma anche nell’ animo di chi osserva. Ma il quadro continua a gridare la sua forza silenziosa anche quando nessuno è presente, anche quando nessuno lo ascolta. Testimone solitario di spettri emozionali che vengono accolti da chi sa ascoltare.

ANDREA TERENZIANI – NEL SILENZIO CHE LA CIRCONDA – 150 X 120 – RESINE SU TELA

 

“Il grido. Sta all’inizio della vita dell’uomo sulla terra. Il grido di caccia, di guerra, d’amore, di terrore, di gioia, di dolore, di morte. Ma anche gli animali gridano; e per l’uomo primitivo grida anche il vento e la terra, la nube e il mare, l’albero, la pietra, il fiume.”

 

IVANO PAROLINI – VELENO – 31 X 42 – TECNICA MISTA

Arte è Kaos è nel Budello di Alassio, la prestigiosa via dei negozi nel centro storico della città, al numero 100 di via V. Veneto. Dal 2006 sono stati numerosi gli eventi, le personali e le collettive organizzati in galleria e in diverse sedi nella Riviera Ligure, con un occhio sempre attento verso le avanguardie storiche del ‘900 insieme alle nuove proposte di giovani artisti contemporanei.

SOS – Screaming On Silence – Mostra collettiva – dal 23 dicembre 2016 all’8 gennaio 2017 presso lo spazio d’arte contemporanea Arte è Kaos – Alassio

Artisti presenti: Ciro Palumbo, Max Gasparini, Enrico Ingenito, Claudio Massucco, Ivano Parolini, Constantin Migliorini, Andrea Terenziani, Gianfranco Germiniasi, Paolo Dolzan, Pitti.

Catalogo: visualizza CATALOGO SOS in pdf – versione cartacea disponibile gratis in galleria

Orari: tutti i giorni dalle 9.30 alle 12.30, dalle 15.30 alle 19.30, chiuso il mercoledì e giovedì mattina

-Contatti / ufficio stampa –

Mail: arteekaos@gmail.com sito: www.arteekaosonline.comtelefono: 0182.020456

 

 

A Genova sbarca Pop Society: una grande retrospettiva su Andy Warhol

 

 

Genova – Nel febbraio del 1987 muore a New York per complicazioni dopo un’intervento chirurgico Andrew Warhola Jr, conosciuto come Andy Warhol, gigante della Pop art e tra gli artisti più influenti del XX secolo. Figlio di immigrati slovacchi, nato a Pittsburgh, in Pennsylvania il 6 agosto del 1928, Warhol si distingue fin da giovane per un talento improntato verso il disegno e la grafica. Dopo la laurea in arte pubblicitaria nel 1949 si trasferisce a New York per lavoro: il mito ha inizio.

La mostra “Pop Society” omaggia la figura di uno dei più importanti artisti del secolo scorso: colui che ha sdoganato definitivamente l’arte come fenomeno commerciale e di massa, creando icone e diventandone una esso stesso, aprendo (spalancando) definitivamente la porta dell’arte contemporanea, così come la intendiamo oggi.

“Le masse vogliono apparire anticonformiste: ciò significa che l’anticonformismo deve essere prodotto per le masse.”

Curata da Luca Beatrice, grande critico d’arte e curatore torinese, la mostra presenta circa 170 opere tra tele, stampe, disegni, polaroid, sculture, provenienti da musei, collezioni private e pubbliche, italiane e straniere. “Pop Society” si snoda attraverso un percorso tematico che si sviluppa attraverso sei linee conduttrici: le icone, i ritratti, i disegni, il rapporto di Warhol con l’Italia, le polaroid, la comunicazione e la pubblicità.

Le opere sono tante, la qualità è alta, l’allestimento è molto curato.
E ci sono proprio tutti: Marilyn, Mao, Man Ray, Mick Jagger, Agnelli, Armani, i Brillo Boxes, il Dollaro, Liza Minelli, Beuys.. e tanti, tanti altri. L’impressione è di trovarsi ad un party esclusivo e colorato, Ladies and Gentlemen, circondato dalle icone più importanti della seconda metà del secolo scorso. I lavori serigrafici rappresentano ovviamente la maggioranza delle opere esposte, ma l’esibizione copre l’intero arco della vita di Warhol, dai disegni degli anni ’40 (bellissimi per la loro capacità di sintesi e la forza anticipatoria e quasi profetica del periodo successivo della Factory) alle opere tardive degli anni’80 (un’ Ultima Cena realizzata in Italia poche settimane prima della sua morte).

“… Siamo stati in Italia, e tutti mi chiedono in continuazione se sono comunista perchè ho dipinto Mao. Perciò ora dipingo falci e martelli per il comunismo e teschi per il fascismo”.

 

Alzando gli occhi sopra le opere le citazioni di Warhol ti strappano qualche sorriso, per la loro irriverenza e la loro (apparente) semplicità. Interessante la parte dedicata al rapporto di Warhol con l’Italia (con i ritratti tra gli altri di Sandro Chia e Gianni Agnelli), mentre un’intera sezione è dedicata alle polaroid, oltre 90, con un intrigante allestimento  in una sala completamente affrescata. Inoltre, un video di Luca Beatrice racconta con sintesi esaustiva la vita di e le opere di Andy Warhol.

 

“Fare denaro è un’arte. Lavorare è un’arte. Un buon affare è il massimo di tutte le arti.”

 

L’arte deve essere consumata come un qualsiasi altro prodotto commerciale.
Sintetizzando all’estremo il pensiero di Warhol si può estrapolare questa frase, e “Pop Society” ci guida appunto all’interno di questa filosofia, con gusto e coerenza, facendoci scoprire o ribadendo ancora una volta la “profonda superficialità” di questo grandissimo artista.

 

“Non è forse la vita una serie d’immagini, che cambiano solo nel modo di ripetersi?

 

Stravolgendo il canone: bellezza e decadenza nei corpi di Ivano Parolini

Il tema della figurazione femminile per Ivano Parolini diventa motivo di dialogo. L’artista non si limita a descriverci un volto o un corpo: bensì reinventa un ideale di bellezza, un canone. E’ una pittura dalla forza bruta, che dialoga con la ricercatezza dei toni e la delicatezza di esili figure femminili, dalle pose plastiche, quasi scultoree, ma allo stesso tempo dinamiche. A volte in coppia, spesso da sole, le sue giovani donne emanano un aura di dolce spleen, attraverso una rilettura della loro bellezza originale. Le opere di Ivano Parolini sono potenti e delicate insieme: fiori del male velenosi dal profumo dolce e invitante. Conosciamo un po’ meglio questo giovane artista bergamasco.

 Ivano, i tuoi lavori suggeriscono un rimando all’idea della “cancellazione”, tematica cara all’arte contemporanea. Chi sono i tuoi maestri spirituali?

Nel mio percorso artistico, fino ad ora, si sono succeduti diversi maestri spirituali. Se penso alla mia infanzia, ricordo quando, nel periodo nel quale frequentavo le scuole elementari, mi venne regalato un libro su Van Gogh: rimasi molto colpito dalla sua pittura suggestiva, ma anche dalla profondità delle lettere che scriveva al fratello. In quelle parole così vere e autentiche mi era possibile “percepire” la sua ricerca, convinta e appassionata dedizione, che lo ha caratterizzato per tutta la vita. Ora, da adulto, credo che i miei maestri spirituali siano essenzialmente Bacon, per la forte espressività interiore che permea le sue opere, Basquiat, per il dinamico uso del colore, che associa nei toni in modo a mio avviso sorprendente ed Emilio Vedova, per la potenza del segno che lo caratterizza.
 Chi ammiri tra i contemporanei?

Sono molteplici gli artisti contemporanei che ammiro, ma vorrei soffermarmi in particolar modo su Adrian Ghenie: benché la mia ricerca artistica sia diversa dalla sua, guardando i suoi dipinti mi trovo in sintonia con la sua sensibilità ed espressività artistica. Nell’ultimo periodo, inoltre, ammiro anche i lavori di Anish Kapoor e Claudio Parmiggiani con le loro installazioni. Io stesso, ultimamente trovo molto interessante l’intervento temporaneo(site-specific): attraverso performance e installazioni mi è possibile unire diversi linguaggi per comunicare un pensiero complesso e farlo arrivare al pubblico sotto diverse forme espressive.

Le tue figure a volte sembrano modelle di decadenti servizi fotografici. Che rapporto c’è tra il glamour e i tuoi dipinti?

In molte opere ho effettivamente interpretato le immagini pubblicitarie di note riviste di moda. In queste rappresentazioni colpisce, perché così deve essere, la centralità di ciò che è esteriore: dalla posizione e l’espressione del soggetto, alla costruzione del set fotografico, all’arredamento usato e ai colori che predominano… Ebbene, nei miei dipinti stravolgo questi canoni espressivi, comunicando un altro tipo di glamour, più introspettivo, che richiami qualcosa che va al di là dell’esteriore, intrecciandosi con storie di vita vera, reale.

 Cosa rappresenta per te il corpo?

Il corpo è un mezzo di grande potenza: osservando i corpi fotografati delle immagini pubblicitarie, la loro posizione, gli sguardi, l’accostamento cromatico con lo sfondo, scaturisce una sorta di empatia, di “dialogo muto” che trova la sua espressività nel gesto pittorico. Credo che in fondo si tratti di un dialogo con la parte più nascosta di me stesso, con quella parte che affiora solo con la pittura.

 Come è iniziata la tua carriera d’artista? 

Ho sempre sentito, fin da piccolo, la necessità di trovare un modo per esprimere quello che sentivo dentro. Verso circa gli undici anni ricordo che rimasi molto colpito nel vedere il quadro di Gauguin (“Da dove veniamo ?, chi siamo ?, dove andiamo?”), e in quest’opera trovai molti parallelismi con le mie domande e inquietudini del periodo adolescenziale. Ho capito molto presto che la pittura era un ottimo strumento per poter esprimere il mio mondo interiore…

I tuoi personaggi sembrano non interagire quasi mai con il contesto attorno a loro. E’ una scelta data per centrare l’attenzione sul soggetto?

In effetti è vero: molto spesso il contesto viene cancellato, perché ciò che per me è importante è il dialogo costante del soggetto con il colore e il segno. Si tratta di un dialogo sottile e intenso. Altre volte accade che il contesto opprima il soggetto: ecco allora che entra dentro di essa, annientandola. Altre volte ancora, poiché percepisco un certo “attrito”, allora sì, annullo tutto ciò che sta attorno e creo un mondo surreale, nel quale la figura possa sentirsi a proprio agio.

Qual è la cosa che ti riesce meglio e quella che riesce peggio?

Riesco a trasmettere e ad esternare ciò che sento attraverso la pittura e la performance. Se un giorno non me la sento di dipingere non lo faccio, evito le forzature. Se però capita di doverlo fare per forza (come nel caso di una performance già programmata), allora cerco il vuoto dentro di me e cancello tutto quello che mi sta attorno. La cosa che mi riesce peggio è tenere ordinate le mie cose e il mio studio ne è la prova!

Come mai scegli di ambientare le tue opere “indoor” e mai in esterni?

I soggetti che dipingo vengono tratti da immagini pubblicitarie che, è vero, sono per lo più fotografati indoor. Attribuisco a questo, però, anche una valenza simbolica: è come se il soggetto fosse inglobato dentro qualcosa d’altro, una stanza, un involucro, un altro sé… In effetti però, ho realizzato anche altri lavori ambientati in esterno. Tra questi uno è “Parigi”, ispirato ai tragici attentati di Novembre 2015: in questo caso il soggetto viene invaso e dilaniato dall’esterno, dal contesto, che personifica il terrorismo.

 

 Qual è la tua definizione di Bellezza?

La bellezza è fare qualsiasi cosa, ma in sintonia con essa. L’ho già detto: non amo le forzature e le rigidità, ma credo fortemente nella sintonia e nella relazione armonica con ciò che ci circonda. Quindi bellezza è già guardare, contemplare, compiere un’azione, un gesto…e questa bellezza la si può trovare ovunque.

Raccontaci di un ricordo a cui sei particolarmente legato .

 Il ricordo a cui sono più legato è in realtà abbastanza inquietante, in quanto, potenzialmente, poteva essere drammatico. Avevo circa due anni e, anche in base ai racconti più dettagliati di mia madre, posso dire di essere stato sfiorato dalla morte. A causa di un attacco di pianto ho smesso di respirare e il mio colorito, da cianotico, è arrivato al bluastro. Mia madre, urlando, mi prese in braccio e, scendendo le scale di corsa, gridava che ero morto. Ricordo le sue grida, il buio, e la presenza di persone attorno a me. Poco dopo ripresi a respirare autonomamente. Non conosco il motivo, ma questo ricordo lo conservo gelosamente e spesso, mi ritrovo a pensarci.

Cosa ti piace fare, oltre a dipingere? Quali sono tre cose indispensabili per un artista secondo te? 

Oltre a dipingere mi piace fare apnea. Mi è capitato di andare a Hurgada, in una baia nella quale spesso arrivava il Dugongo, un grosso cetaceo lungo alcuni metri. Prima dell’alba, ogni mattina, andavo in mare con la speranza di vederlo, ma non ebbi mai questa fortuna. Mi capitò invece di ammirare delle grosse tartarughe marine e nuotai per un certo tempo accanto a loro, stupito e ammirato per la loro bellezza. Amo anche correre e camminare in montagna: lo sforzo fisico, ad un certo punto, aiuta molto la meditazione. Le tre cose indispensabili per un artista, secondo me, sono: sognare (è l’arma più forte contro certi aspetti della realtà), la curiosità di andare oltre per scoprire ciò che è nascosto anche agli occhi e, infine, credere nella propria visione e portarla avanti fino in fondo.

Quali sono le prossime mostre/eventi che hai in programma? Su cosa stai lavorando al momento?

Al momento sto lavorando ad un progetto artistico che coinvolge diverse arti. Il focus centrale è quello del viaggio delle anime dopo la morte, con approcci e interpretazioni diverse: dal cristianesimo al paganesimo.

Enrico Ingenito: la leggerezza del colore

Ho conosciuto i lavori di Enrico Ingenito ad ArteGenova di due anni fa. Mi hanno colpito subito per l’uso del colore, il senso della prospettiva, la delicatezza del tratto e l’apparente “semplicità” .  Apparente, perchè dietro i suoi paesaggi si intravede una tecnica matura, mediata da un gusto personalissimo sul colore e sulla resa della luce. Le sue sonovedute caleidoscopiche, d’ impatto quasi fotografico, dove l’elemento naturalistico è il vero protagonista.

La presenza umana è appena accennata da edifici che compaiono sporadicamente, ma è l’aspetto naturalistico della composizione a emergere dai suoi quadri. Le sue sono tavolozze cromatiche in continuo movimento, dal forte dinamismo, dove le fronde degli alberi sembrano ondeggiare davanti ai nostri occhi. Mi sono fatto raccontare qualcosa di più direttamente da lui:

 – Enrico, dai tuoi lavori sembra emergere una sorta di “solitudine”. Dove sono le persone nei tuoi paesaggi? Si nascondono?

Nei miei lavori il tempo ha un valore molto importante, cerco di cogliere quegli attimi in cui ci sembra di intuire qualcosa, in cui qualcosa cattura la nostra attenzione, una luce, un riflesso, un’ombra; in quegli attimi il tempo si allunga e come nelle foto a lunga esposizione tutto ciò che si muove troppo velocemente si polverizza e si fonde con il paesaggio.

– Monet diceva : voglio dipingere la luce tra me e il soggetto. Nei tuoi lavori si avverte quasi una gerarchia: la luce sembra avere un “peso”.
Picasso diceva che alla fine i soggetti sono sempre gli stessi. Paesaggio, Figura o natura morta, Non credo che il soggetto sia poco importante ma penso che costituisca soprattutto un punto di partenza che inevitabilmente viene superato.
– Qual è il momento della giornata in cui preferisci dipingere?
Al mattino presto, non è forse molto romantico ma è il momento in cui si hanno più energie e la mente è più libera.
-So che hai realizzato anche ritratti: adesso i paesaggi hanno preso il sopravvento sulla figura umana?
Nel paesaggio ho trovato un respiro più ampio in questo momento ma ogni tanto dipingo qualche ritratto su commissione e non mi dispiace.
 C’è un luogo a cui sei particolarmente affezionato?
Sono sicuramente affezionato a molti luoghi che fanno parte della mia vita ma quello che mi suscita più emozioni sono senz’altro i momenti, la sera prima che si accendano le luci, l’inizio dell’autunno …
– Un aspetto che trovo interessante della tua tecnica è il processo di “sottrazione” dell’olio dalla tela. Me ne parli?
ho sempre sentito il bisogno di alleggerire quello che facevo, ho trovato nell’olio un grande alleato. Ti permette di togliere e mettere per un lasso di tempo relativamente lungo. alla fine quello che mi interessa di più è la traccia che rimane di quello che faccio.
– Raccontami qualcosa del processo di lavorazione delle tue opere: come parti, come prosegui, come finisci.
Parto sopratutto da quello che vedo e che mi colpisce, poi fotografo, ritorno sui luoghi e cerco particolari momenti di luce, poi con le foto mi chiudo in studio e comincio scegliendo il colore  che poi stendo sulla tela denso. Poi comincio a lavorare sul colore senza figura aiutandomi con degli stracci o dei pennelli molto grandi creando degli aloni. su questa base inizio poi a costruire l’immagine scegliendo cosa prendere e cosa far sparire nel colore.
– Sembra una domanda scontata, ma quando la si rivolge a un’artista non lo è mai: ti piace visitare mostre d’arte? Qual è stata l’ultima che hai visitato?
In alcuni periodi mi piace in altri ne sento meno l’esigenza. L’ultima che ho visitato risale a qualche mese fa al Bonnefantenmuseum di Maastricht, un pittore olandese mio coetaneo di nome Johan Van Barneveld, mi piace molto quello che fa e lo trovo di grande ispirazione.
– Hai un colore preferito?
Tutti.
– Un artista del passato che vorresti aver conosciuto? un artista vivente che ti piacerebbe conoscere?
Mi sarebbe piaciuto vedere lavorare molti artisti. Forse Mark Rothko è un artista con cui mi piacerebbe parlare oggi. Come contemporanei l’artista a cui faccio più riferimento è senz’altro Gerard Richter
– Quali sono i tuoi progetti per il futuro? Mostre? Viaggi? 
E’ un periodo difficile per fare progetti, sembra che nessuno creda più molto nel futuro. Mi piacerebbe fare un viaggio in Scandinavia o in Islanda per fotografare e cercare nuove ispirazioni. La cosa a cui sto lavorando con più interesse è un progetto per una mostra in un contesto museale, ma per scaramanzia ancora non ne parlo.

Bacon e la cultura francese. A Montecarlo in una mostra imperdibile

A Montecarlo, fino al 4 settembre, oltre agli yacht e ai locali sfarzosi, al glamour e alla movida turistica, potete trovare una delle mostre più interessanti e ben strutturate che la riviera francese ha ospitato negli ultimi anni. Si tratta di Francis Bacon, Monaco and French Culture. Curata da Martin Harrison, il curatore tra le altre cose proprio del Catalogo Ragionato dell’artista. Una selezione di oltre 60 lavori esposti nella prestigiosa cornice del Grimaldi Forum, che indagano il rapporto tra Bacon, la cultura francese e l’influenza esercitata  sulla sua pittura durante il suo periodo monegasco.

 

Hanno voluto fare le cose in grande, qui al Grimaldi Forum. O forse semplicemente farle bene? Infatti, la sensazione che hai subito è questa: ogni cosa è come dovrebbe essere. E’ tutto calibrato, è tutto in bolla. L’atmosfera fin dall’ingresso è catartica, rituale: si entra nel Nero, nella cupezza dell’animo di Bacon, nei suoi tormenti interiori. Ma anche nei suoi colori, che emergono dal buio con potenza. Nella prima parte della mostra le opere escono con forza dal “total black” della scenografia: l’illuminazione a supporto è perfetta, fa uscire in maniera impeccabile i colori e il mood di ogni singola opera.

L’impatto è notevole: c’è un’aura di misticismo che permea gli ambienti, il silenzio è quasi religioso. Opere di grandi dimensioni si alternano a piccole “chicche” e a quadri  dei grandi maestri che hanno ispirato Francis Bacon: Giacometti, Léger, Lurçat, Michaux, Soutine, Toulouse-Lautrec, Picasso. Gli spazi sono ampi, i quadri respirano, la fruizione è perfetta: si resta letteralmente a bocca aperta di fronte alla qualità della selezione e dell’allestimento.

Nella seconda parte della mostra i quadri emergono da fondali più neutri. Due trittici di grandi dimensioni, uno dopo l’altro, valgono da soli il prezzo del biglietto (di per sè , tra l’altro, contenuto). E poi ne spunta un terzo. OK. La qualità delle opere rimane alta fino alla fine, non si avvertono i classici cali a riguardo sperimentati in tante mostre. Per fortuna, si possono anche scattare fotografie (senza flash). E i ritratti in questa parte di mostra sono semplicemente meravigliosi. Quando pensi di ritenerti soddisfatto, ecco due ultime chicche: un cubotto arancione, con alle pareti fotografie che riproducono lo studio dell’artista, quasi a volerci invitare nel suo atelier, e un’installazione interattiva, dove è possibile caricare tramite un’app e il wi-fi del Grimaldi Forum una propria foto su uno schermo gigante, in diretta, per giocarci coi filtri e firmare un “guestbook” del tutto particolare.

Insomma, tutto perfetto. E come a rimarcare il tutto, nel book store ci sono pure gli sconti del 50% su molti articoli, nel caso qualcuno voglia portarsi a casa un ricordino (come il sottoscritto).

“I believe in a deeply, ordered chaos”, diceva Francis Bacon. Questo suo pensiero è egregiamente rappresentato da questa mostra; il caos interiore che le sue opere rivelano dialoga in armonia e si fa accudire e proteggere dal rigore che lo incornicia. Una simbiosi rara e per questo speciale, potente. Una mostra consigliatissima per gli amanti di Francis Bacon, per chi non lo conosce, per chi vuole approfondirlo ed entrare così dentro l’animo di uno dei più grandi pittori del secolo scorso.

 

 

Peggy Guggenheim e la sua valigia dell’arte

“Si è sempre dato per scontato che Venezia sia la città ideale per una luna di miele ma non solo, è un grave errore: vivere a Venezia, o semplicemente visitarla, significa innamorarsene e nel cuore non resta più posto per altro.”

Genova –  fino al 4 Settembre al Palazzo Ducale è visitabile “La valigia di Peggy Guggenheim”, mostra dedicata a una grande collezionista del secolo scorso, ripercorrendo la sua vita e il rapporto con gli artisti e le avanguardie dell’epoca.

Peggy Guggenheim: una donna che ha fatto dell’Arte un motivo, uno stile, una ragione di vita. Nata nel 1898 a New York da una famiglia più che benestante ( il Guggenheim Museum di New York è di suo zio), ottiene dopo la morte del padre (era sul Titanic) e diventata maggiorenne, parte della fortuna di famiglia: decide di compiere un viaggio tra le cascate del Niagara e il messico. Una vita già impostata per l’avventura e la scoperta.

Ed è proprio quest’animo avventuroso che la porterà a conoscere gli esponenti delle avanguardie dell’epoca e a emanciparsi dall’ideale di giovane donna dell’alta borghesia perbenista: tanti amanti, una vita sentimentale sicuramente non convenzionale, una grande passione per l’arte senza preconcetti, per i viaggi, per la bella vita.

Dopo aver aperto una libreria a New York, poco più che ventenne, nel 1922 decide di sposarsi, a Parigi, con Laurence Vail, squattrinato artista dadaista, e da lui ha due figli, un maschio (Sinbad) e una femmina (Pegeen Vail Guggenheim), che diverrà artista anch’essa che morirà a 45 anni, di overdose . Grazie al marito artista, a Parigi comincia a frequentare i salotti bohémien e conosce e stringe amicizie con artisti del calibro di  Man Ray, per cui poserà, Constantin Brâncuși e Marcel Duchamp. Il matrimonio con Vail ha vita breve, i due divorziano nel 1928, e dopo essersi invaghita di uno scrittore alcoolizzato conosciuto subito dopo il divorzio  nel gennaio del 1938, a Londra, assieme a Jean Cocteau, inaugura la galleria Guggenheim Jeune: la prima di una lunga serie di collezioni, che la renderanno negli anni la più importante sostenitrice dell’avanguardia europea.

Ed è qui grandi nomi come Henry Moore, Henri Laurens, Alexander Calder, Raymond Duchamp-Villon, Constantin Brâncuși, Jean Arp, Max Ernst, Pablo Picasso, Georges Braque and Kurt Schwitters esporranno le loro opere negli anni a venire. La guerra la riporta in America, e a New York apre nel 1942 Art of This Century, galleria d’arte dove espone tra gli altri uno sconosciuto Jackson Pollock. Nel 1941 si sposa con Max Ernst, ma il matrimonio dura ancora meno del precedente: i due divorziano nel 1943. Con la fine della guerra Peggy si sposta a Venezia, nel 1948, acquistà a Venezia palazzo Venier dei Leoni, sul Canal Grande, dove si trasferì con le sue opere. Fino alla sua morte, avvenuta nel 1979, Peggy fu promotrice e ambasciatrice di tutte le avanguardie artistiche dell’epoca. Le sue collezioni, visitabili nei musei di Bilbao, Venezia e New York, comprendono lavori tra gli altri di Giorgio de Chirico, Salvador Dalí, René Magritte e Alberto Giacometti.

 

L’arte di Bansky in mostra a Roma

Roma – E’ sbarcata nella capitale a maggio, e fino al 4 settembre 2016, a Palazzo Cipolla, sarà possibile ammirare una selezione di 150 opere scelte tra collezioni private di uno dei più grandi e influenti street artist del mondo: Bansky.Ideata e promossa dalla Fondazione Terzo Pilastro – Italia e Mediterraneo, presieduta dal Prof. F.M. Emanuele, e curata da Stefano Antonelli e Francesca Mezzano di 999Contemporaryassieme ad Acoris Andipa direttore della Andipa Gallery di Londra.

Guerra, capitalismo e libertà, dunque, i temi principali attraverso i quali si snoda una mostra (e una carriera) dal corpus decisamente significativo, che comprende non solo dipinti ma anche stampe, oggetti rari, sculture. La mostra è no-profit: l’anima è dichiaratamente didattica, indirizzata soprattutto alle scuole, per far comprendere appieno la poetica dello street artist di Bristol, che ha sempre fatto dell’anonimato un cavallo di battaglia. Bansky, classe 1974, attualmente non è rappresentato da nessuna galleria: caso più unico che raro per un artista di tale calibro. Inizia la sua carriera nei primi anni 2000, tra Bristol e Los Angeles, e dopo aver disegnato copertine per la musica dei Blur i suoi lavori iniziano ad assumere la connotazione di street art a cui rimarrà fedele negli anni successivi: polemici, ironici, provocatori, disturbanti. Dalla striscia di Gaza a un film con nomination all’Oscar,  fino a “Better Out Than In”, un progetto dove le sue tele sono state vendute per la cifra irrisoria di 60 dollari per la città di New York, su alcune bancarelle, ai turisti. Fino a Dismaland, aperto nel 2015, la sua ultima grande trovata: un parco a tema che è l’esatto opposto di un parco di divertimenti. Atmosfere fatiscenti e  diroccate e addetti ai lavori depressi. E all’interno una mostra che contiene opere tra i più grandi artisti contemporanei viventi, trasferito a dicembre dello stesso anno a Calais per ospitare i rifugiati.

BANKSY. WAR, CAPITALISM & LIBERTY

TELEFONO PER INFORMAZIONI: +39.06.97625591

E-MAIL INFO: fondazione@fondazioneterzopilastro.it

SITO UFFICIALE: http://www.warcapitalismandliberty.org

 

PITTI: un colloquio informale

Movimento e colore. Se dovessi sintetizzare in due parole l’arte di Pitti queste sono le prime due che mi vengono in mente. In realtà dentro la sua pittura c’é di più, molto di più. ‎C’é la ricerca riguardo un segno  personalissimo e subito riconoscibile, c’é contrapposizione e giustapposizione, c’é l’irruenza e la vitalità del gesto sempre in movimento sulla tela, ci sono colori nei colori tutti  da scoprire.  E capita che guardando un’opera di Pitti ci si perda in un turbinio cromatico ed emozionale.

 Facciamoci raccontare qualcosa direttamente da lui:

-Hai mai pensato di fare un tipo di arte che non sia informale? O hai già fatto degli esperimenti in materia?


– Prima di essere un artista aniconico ero figurativo. Parliamo di un periodo che va dai fine anni sessanta ai primi anni settanta.  Mi ero accorto che il figurale mi annoiava,  ho perso l’interesse nel paesaggio e nella figura umana,  mi sembrava di falsificare il reale.  Mi piace la realtà,  la vita, osservare e rispettare il creato. Non esiste nulla di meglio. il resto per me è falsificazione o masturbazione della mente. La mia vita è sperimentale come la mia arte!

– Chi sono gli artisti che più hanno influenzato la tua pittura?

– La prima visione di apertura fu Georges Mathieu e Willem de Kooning, poi mi sono allontanato dalla loro filosofia e mi sono interessato alla pittura Zen, con il Gruppo Gutai degli anni ’50.

 

– Lavorando come art director spesso mi imbatto in giudizi superficiali da parte del pubblico riguardo l’informale. pensi che l’arte astratta sia più “difficile” da proporre al pubblico?

 – Il problema è la mancanza di cultura, molte persone non conoscono se stesse, figuriamoci se possono capire o aver voglia di conoscere le arti in genere.. Ancora meno l’arte aniconica. La gente ha paura delle verità! Le arti sono la nostra storia, la nostra filosofia e a pochi uomini interessa. Nessuna arte perciò è difficile; basta viverla e studiarla.

– C’é un momento della tua carriera artistica a cui sei particolarmente affezionato?

 – Sono particolarmente affezionato all’opera che eseguirò domani, per mille turbamenti e più opero nel mondo dell’arte e più mi sento vivo! 

-Spiegami con parole tue perché l’arte astratta é davvero arte, e da cosa si distingue un buon quadro astratto uno meno riuscito.

 – L’arte astratta non è altro che l’evoluzione dei tempi. Sappiamo che senza il passato, non esisterebbe il presente, io dal mio canto, penso al presente per poter eseguire delle opere per il futuro. Le opere forse meno importanti sono quelle leccate! Io vedo l’opera importante nell’idea, trasformata direttamente sulla tela.L’immediatezza che, va diritto al cuore e con la quale ci lasciamo trasportare, vibrare con essa e che ogni giorno ti dice sempre un qualcosa di nuovo. 

“Ecco l’opera d’arte”. Per me non esiste l’opera non riuscita! Tutto fa parte di un percorso, un ciclo di vita.

 

– Ascolti musica mentre dipingi? Se sì cosa?

 – Ascoltare musica mi dici.. Da ex -batterista chiaro che l’ascolto. Ma  ci sono vari momenti  e soprattutto di notte dove mi piace essere rincorso dal silenzio, travolto da esso,  faccio rumore col mio colore dirompente. La musica che ascolto in genere è classica, Chopin, Mozart, Schubert e altri. Nel contemporaneo mi piace il blues, Lee Hooker, il rock…..Leon Russel, Bob Dylan, Lou Reed, Van  Morrison, Led Zeppelin, e moltissimi altri.

-La tua pittura richiede tele di grandi dimensioni per “esplodere”. Qual é il quadro più grande che hai realizzato?

– Le mie opere non devono essere necessariamente grandi!  Ho realizzato molte opere anche nel piccolo formato. Ma da espansionista che sono ho eseguito migliaia di opere di formato grande. La tela più grande eseguita è stata in Spagna, nel 2005, il formato di lunghezza 50 metri altezza 2,10 mt.

– Che progetti hai per il futuro ?

– Ho diverse proposte da realizzare, in USA, Spagna, Svezia, Italia e Bulgaria.

-E’ qualche anno che vivi all’estero. Che rapporto hai con l’italia e con il paese dove sei adesso?– E’ tutta una vita che opero all’estero, ho cambiato moltissimi studio e continuerò farlo,  per non perdermi. Se mi fermo e come un po’ morire. Con l’Italia ho dei contatti con diverse gallerie. Con il paese dove sono attualmente ho ottimi rapporti con gallerie storiche e con il museo National Gallery.-Chi è Pitti in tre parole?

– Sono un espansionista, battaglio continuamente con il colore e come dicevo 25 anni fa: non me ne basta un tir.

Un giro alla Fondazione Prada

Milan l’è sempre Milan. Mica vero, tutto l’opposto. Si respira un’aria di forte rinnovamento a Milano. Passata la sbronza dell’Expo 2015,  te ne accorgi da parecchie cose: cantieri un po’ ovunque, edifici nuovi che spuntano come funghi ogni volta che ci torni, mostre, iniziative, spazi recuperati. C’è fermento, Milano vuole diventare un polo d’attrattiva in grado di competere con le più importanti città europee, investendo in settori in grado di richiamare forti flussi economici e umani.

In quest’ottica si colloca la Fondazione Prada, che apre i battenti in quel di Milano nel 2015 (e a Venezia nel 2011). Riqualificazione di un ex distilleria dei primi del ‘900, il complesso si sviluppa su una superficie totale di 19.000 m2, di cui 11.000 m2 sono utilizzati per le attività espositive, suddivisi in diversi padiglioni dai nomi che riprendono la loro passata funzione.

Non c’è un percorso obbligato, il visitatore può muoversi liberamente tra i vari spazi senza seguire un ordine preciso. Cartina alla mano, mi addentro negli spazi progettati da Rem Koolhaas e il suo OMA Studio. Inizio dall’intrigante Haunted House (La Casa degli spiriti), rivestita di foglia d’oro, dalle aperture suggestive che si affacciano sul contesto che circonda la fondazione.  All’interno, un’installazione permanente con le opere di  Robert Gober e due lavori di Louise Bourgeois. Minimale, forse troppo:  la vista fuori dalla Haunted House a tratti attira più l’attenzione delle opere stesse.

Proseguo dalla galleria Sud al Deposito, e mi imbatto in uno dei pezzi forti: l’esposizione “Kienholz: Five Car Stud”, a cura di Germano Celant, che riunisce una selezione di opere realizzate daEdward Kienholz e Nancy Reddin Kienholz, tra le quali la storica installazione che dà il titolo a questa parte di mostra. Dopo un percorso con i vari  tableaux, assemblage e sculture di Ed e Nancy Kienholz (tra i quali spicca The Bronze Pinball Machine with Woman Affixed Also, 1980, in cui il corpo di una donna si fonde con quello di un flipper americano, allusione alla donna come oggetto sessuale) arrivi in uno stanzone illuminato solo dai fari di alcune auto. Five Car Stud ti proietta subito in una situazione da incubo, di violenza e alienazione.

La carica simbolica è potente, e al centro dell’installazione, illuminata dai fasci delle automobili, si apre una scena dove l’odio razziale dei bianchi americani verso le minoranze e le coppie miste ti arriva in faccia come un pugno. Presentata a Kassel nel 1972, in patria non ha ricevuto buoni consensi, dove è stata oggetto anche di atti vandalici. That’s America.

Vado avanti con la sezione che ospita “L’image volée”: una mostra collettiva curata dall’artista Thomas Demand, ospitata in un ambiente progettato dallo scultore Manfred Pernice. La mostra occupa i livelli galleria Nord e il Cinema.“L’image volée” ha come intento quello di farci riflettere su come l’iconografia del preesistente giochi un ruolo predominate sulla produzione degli artisti. Alterazione, mancanza dell’”oggetto d’arte”, ready-made contemporaneo, “furto d’artista”, come è stato definito da qualcuno.  L’appropriazione dell’idea, il “furto” da parte dell’immagine e le potenzialità creative di questo processo sono la base sulla quale si snoda questa parte di esposizione. Ecco quindi che mi imbatto ad esempio in una denuncia incorniciata da Maurizio Cattelan a seguito di un furto di un’opera immateriale, o Stolen Rug (1969), un tappeto persiano rubato su richiesta di Richard Artschwager per una mostra a Chicago.  Autori come Erin Shirreff e Rudolf Stingel creano le loro opere usando come fonte una riproduzione fotografica di un’opera d’arte del passato. Interessante la parte che indaga la contraffazione e la falsificazione, con le banconote riprodotte di Günter Hopfinger, per poi approfondire le pratiche vicine alla cosiddetta Appropriation Art. In Duchamp Man Ray Portrait (1966) Elaine Sturtevant, la pioniera dell’appropriazionismo, fa suo il ritratto di Marcel Duchamp realizzato da Man Ray, sostituendosi sia all’autore sia al soggetto della fotografia. Meritevoli di attenzione per chi scrive i lavori sull’alterazione di  immagini preesistenti come le défiguration di Asger Jorn. Interessante anche il livello interrato della galleria Nord dove John Baldessari con un’installazione video, Blue Line (Holbein) (1988) filma di nascosto il pubblico in una stanza a fianco, mettendo così in discussione il ruolo  dello spettatore.

Nella parte sottostante al padiglione Cinema trovo il Processo Grottesco di Thomas Demand. Per realizzare  la fotografia Grotto, Demand ha ricostruito a partire da una cartolina una grotta dell’isola di Maiorca. Con 30 tonnellate di cartone grigio, sagomato al computer stratificato in 900.000 sezioni, l’artista ricrea l’interno della grotta, per poi scattarne una fotografia. Il modello è visibile nella sala adiacente, difficile non rimanerne impressionati.

Decido di prendermi una pausa al Bar Luce, di fronte alla Haunted House : progettato dal regista Wes Anderson, questo bellissimo luogo di ristoro ricrea l’atmosfera di un tipico caffè della vecchia Milano. L’arredamento è notevolissimo, gli interni sono pensati con cura e gusto, il personale è gentile e l’atmosfera è rilassata. Purtroppo riprendendo a curiosare scopro che due padiglioni sono chiusi per l’allestimento di due mostre che apriranno a breve i battenti: esperienza quindi limitata (ma costo del biglietto uguale).
Nel complesso un bel luogo, da visitare, scoprire e riscoprire. Sullo sfondo si staglia la Torre, edificio-landmark ancora in costruzione che lascia trasparire la volontà della Fondazione di guardare al futuro con curiosità e intraprendenza, lasciando una presenza decisa nel tessuto di questa zona milanese. Sicuramente da tornarci quando anche quest’ultima parte sarà ultimata, per godere appieno di tutte le potenzialità che questo luogo ha da offrire.